Questionario di Holden: Nanna J. Arland

Qual è la cosa più difficile che hai dovuto scrivere nel tuo libro?
Sicuramente la struttura del mondo Onirico e del Tratto come ponte tra le due finestre dei protagonisti. Non è facile scrivere e descrivere al meglio un nuovo modo di comunicare e di reinterpretare l’idea che abbiamo del “mondo dei sogni”.

Chi sono gli autori che influenzano maggiormente il tuo stile di scrittura?
Sono cresciuta con J.K. Rowling per poi approcciarmi ad autori come Sarah J. Maas e Castaneda. I sogni, le lotte, i balli a corte. Enemies to lovers, dark fantasy, romantasy. Ogni libro letto, ogni avventura ha influenzato il mio stile di scrittura.

Qual è il progetto su cui stai lavorando attualmente, e cosa ti entusiasma di più?
La saga di “Cronache oniriche” è ciò su cui mi sto focalizzando ormai da tempo. È un progetto ambizioso e la mia protagonista ne deve ancora passare di situazioni. Allo stesso tempo sto lavorando a un altro libro, un dark fantasy per la precisione.

Come hai creato il mondo o l’ambientazione del tuo libro? Quali elementi ti hanno ispirato?
I fiordi norvegesi e le sabbie dorate su cui Achille si allenava. C’è un mix di mitologie, culture e usanze ben equilibrato. La mia protagonista è un’onirica, figlia dei fiordi con la capacità di esplorare il mondo onirico. Insomma, una vichinga.

Se il tuo libro fosse adattato in un film, chi vorresti che interpretasse i protagonisti?
Ho il mio fan cast da tempo. James McAvoy come Adhemàr ed Eva Green come Lysegreen. Per i gemelli invece Matthew Daddario ed Emeraude Toubia. Ma ho tanti volti a cui darei dei ruoli! Si accettano proposte ovviamente!

Recensione “La vendetta” di Agota Kristof

Traduzione di Maurizia Balmelli
Einaudi

Leggendo La vendetta ho avuto spesso la sensazione che Kristóf scrivesse trattenendo il fiato. I racconti sono brevi, spogli, inevitabili. Succede qualcosa di duro, a volte di crudele, e nessuno lo commenta, nemmeno l’autrice. La vendetta non è un riscatto, è solo ciò che resta quando non c’è più nulla. È un libro che non accompagna il lettore: lo lascia solo, come fanno certe verità dette senza enfasi. L’ho chiuso in fretta, ma non l’ho lasciato andare.

Avevi paura di nascere, e ora hai paura di morire.
Hai paura di tutto.
Non bisogna avere paura.
C’è semplicemente una grande ruota che gira. Si chiama Eternità.
Sono io che faccio girare la grande ruota.
Non devi avere paura di me.
E neanche della grande ruota.
L’unica cosa che può fare paura, che può fare male è la vita, e quella la conosci già.”
Racconto “La grande ruota”


a cura di Marco Palagi

Recensione “All’ombra del padre” di Richard Russo

Traduzione di P. Bertante
Sonzogno

Questo lungo romanzo mi ha fatto tornare in un luogo che conosciamo tutti: quello in cui l’amore non è semplice, non è detto, ma pesa. È la storia di un padre difficile da amare, la cui presenza pesa come un’ombra lunga, e di un figlio che cresce cercando spazio per respirare. Un libro che fa male in silenzio. Richard Russo scrive con una delicatezza che disarma, senza giudicare, senza spiegare troppo e racconta l’amore imperfetto, quello che non sa dirsi, fatto di assenze, ironia amara e tentativi goffi di restare vicini. Leggendolo ho avuto la sensazione che parlasse anche di me, di quello che resta dei nostri padri dentro di noi. È una storia che somiglia alla vita: ti prende piano, poi ti accorgi che parla anche di te. E quando chiudi l’ultima pagina, qualcosa resta, come un nodo alla gola che non se ne va. Un libro che non si dimentica, perché non chiede di essere capito, ma sentito.

“La nostra era probabilmente l’unica casa di Mohawk sempre chiusa a chiave. L’unica a dover rimanere tale, diceva mia madre. Io sapevo perché, anche se non avrei dovuto. Era per tener fuori mio padre.”

a cura di Marco Palagi

Questionario di Holden: Alessandro Belogi

Quali sono i tuoi scrittori/poeti preferiti?
I miei scrittori preferiti sono quelli di cui, ogni volta che li leggo, provo un sentimento di vertigine. Mi fanno sentire piccolo all’ombra della loro grandezza. Tra tutti, penso che il più brutalmente perfetto sia Kundera.

Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?
La necessità di scrittura che sento dentro di me. Un desiderio quasi doloroso di comunicare il mio mondo interiore, imperfetto e sfuggente. Dargli vita attraverso le parole così da non lasciarlo marcire inespresso.

C’è una tematica ricorrente nelle tue opere? Se sì, quale?
La fuga costante dal reale, la ricerca di un rifugio attraverso l’immaginazione. Questo con tutti i suoi disagi: l’isolazione, lo straniamento dalla contemporaneità, l’incomunicabilità tra il proprio mondo interiore e l’esterno.

Se il tuo libro fosse un album musicale, quale genere o artista sarebbe la colonna sonora ideale?
Questo libro, pur chiamandosi “Blues”, lo sento più rock. Il rock degli anni ’60 e ’70, Led Zeppelin, King Crimson e Pink Floyd. Una bestia informe che ricerca insaziabilmente la bellezza, come appunto Echos dei Pink Floyd o Starless dei King Crimson.

Come affronti il momento in cui una storia che hai scritto giunge alla fine?
Mi sento vuoto e inizialmente triste. Ho sempre il terrore di non aver comunicato tutto quello che dovevo, di non aver reso alla perfezione l’idea che avevo in mente. Poi, rileggendo, se il lavoro è fatto a dovere, mi sento finalmente completo .

Questionario di Holden: Alessandro Dell’Aira

Qual è la cosa più difficile che hai dovuto scrivere nel tuo libro?
Concepirlo come una serie di cartoline dipinte con i piedi. Qualcuno mi aveva chiamato scrittore che non sa riconoscere le metafore. Lo aveva detto in modo sarcastico: uno spunto ideale per scrivere capitoli pieni di metafore chiarissime.

Hai mai vissuto il blocco dello scrittore? Come lo affronti?
Se l’ho vissuto è stato perché avevo di meglio da fare. Semmai sono un narratore, ho i miei trucchi: per esempio, narro qualcosa su Facebook partendo da un’immagine e in poche battute come in un tweet. Per me Facebook è un diario e una palestra.

Quando inizi a scrivere, hai già una visione chiara della trama o segui l’ispirazione del momento?
Dipende da che storia è. Se è una storia su vicende realmente accadute, la trama è chiara in partenza anche se l’intreccio no. Se è una storia tutta fantastica, neppure la inizio. Non sarei capace di scriverla e neppure di montarla.

Come affronti il momento in cui una storia che hai scritto giunge alla fine?
Non lo affronto, la storia di un romanzo in realtà non giunge mai alla fine. Il finale non è mai certo come l’incipit, perché magari a metà strada cambi idea, e a tre quarti pure. Mentre l’explicit non cambia mai.

C’è un libro in cui vorresti “vivere”?
L’Odissea. Non si sa chi l’ha scritta. Poi, perché adoro il mare, un tempo mi ci immergevo. Terzo, perché l’eroe torna a casa, mentre dal mare non è certo che si riemerga. Infine, perché ci sono ‘storie d’amore’ diverse, e il meglio è questo.

Questionario di Holden: Brice Grudina

Quali sono i tuoi scrittori/poeti preferiti?
Ho iniziato a scrivere durante gli anni all’università, nella Facoltà di Lingue e Letterature di Cagliari. La passione è nata dopo aver scoperto le poesie, e soprattutto le vite tormentate dei poeti maledetti francesi. Tra tutti, Arthur Rimbaud.

Come scrivi di solito, a mano o col computer?
Dipende dai momenti: durante il giorno scrivo al computer, mentre la notte, quando avverto il bisogno di esprimermi e di lasciarmi andare, preferisco affidare i pensieri alla carta e scrivere a mano.

Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?
Ho voluto dedicare un pensiero a tutte le donne: la donna è il perno attorno a cui ruota la vita del poeta. Inoltre, desidero che la poesia diventi uno strumento sociale, capace di offrire aiuto e conforto a chi ne ha bisogno.

Com’è il tuo spazio di scrittura?
Lavorando come docente, sto allestendo a casa un vero e proprio ufficio, uno spazio tutto mio dotato di tutto ciò che serve anche per scrivere. Una stanza silenziosa, isolata e soprattutto comoda.

C’è una tematica ricorrente nelle tue opere? Se sì, quale?
L’amore, in tutte le sue infinite sfumature, e la donna, sua eterna complice.

Recensione “Destini peggiori della morte” di Kurt Vonnegut

Traduzione di Graziella Civiletti
Bompiani

Vonnegut qui non costruisce una storia: apre una finestra su di sé. Tra memorie, appunti e conferenze, racconta le sue ferite e il suo modo di restare in piedi in un mondo spesso assurdo.
Il suo sarcasmo tenero attraversa tutto: guerra, politica, famiglia, arte. Sembra parlare direttamente al lettore, con quella lucidità storta che fa sorridere e pensare insieme.
Un libro che non offre risposte, ma uno spazio onesto in cui riconoscersi. E che ricorda, con gentilezza ruvida, che si può guardare il caos negli occhi e continuare comunque.

“Io so essere più svelto della Chiesa Cattolica Romana nell’annunciare chi è santo, dato che non richiedo prove da aula di tribunale sulla capacità dimostrata dal tal dei tali in almeno tre occasioni, di compiere magie con l’aiuto di Dio. Per me è sufficiente se una persona […] trova senza difficoltà che tutte le razze e le classi sono ugualmente rispettabili e interessanti, e non le ordina secondo il loro denaro.”

a cura di Marco Palagi

Questionario di Holden: Anna Chiara Venturini

Chi è il tuo primo lettore a libro finito?
Una donna preziosa. Creiamo le scene del romanzo, facendo collage su quadernoni che diventano una sceneggiatura. Facciamo shooting per promuovere il libro. Corregge le bozze, non le scappa niente, adora le virgole. Si chiama Alice, figlia meraviglia.

Come hai creato il mondo o l’ambientazione del tuo libro? Quali elementi ti hanno ispirato?
Le sale affrescate del palazzo di una duchessa di fine ‘800. Quadri con i ritratti di famiglia, arredi. Ore trascorse in archivi, sommersa da fotografie e lettere, con grafie simili a stupendi scarabocchi da interpretare, il resto è lievitato da sé.

Hai una biblioteca personale o collezioni edizioni particolari di libri che ami?
Ho una biblioteca di circa 2000 volumi e li ho letti quasi tutti. Di loro so dove sono, in quale ripiano dormono. Di me loro sanno che li sveglio spesso dallo scaffale, qualcuno per colpa mia soffre d’insonnia. Nel loro silenzio scopro mille vissuti.

Qual è il momento più soddisfacente del processo di scrittura per te?
Quando arriva la mail dell’editore con l’allegato da revisionare. Allora mi siedo, comincio a sfogliare e incollo lo sguardo sul frontespizio e penso: “Ce l’ho fatta!” È in quell’attimo che la piccola creatura s’aggrappa per sempre alla mia felicità.

Se non fossi uno scrittore, quale altra professione ti piacerebbe intraprendere?
La Svuotasoffitte, così creerei storie nuove, le più diverse, scoprirei come la gente trattiene i ricordi o vuole dimenticare i propri vissuti. Sarebbe una corsia perfetta per lanciare al galoppo i cavalli bianchi della fantasia. Non li fermerei più.

Recensione “Train Dreams” di Denis Johnson

Traduzione di Silvia Pareschi
Mondadori

La vita di Robert Grainier scorre tra boschi, ferrovie e silenzi che sembrano parlare più delle parole. È la storia di un uomo qualunque, e proprio per questo universale: perdita, stupore, solitudine, un’America che cambia troppo in fretta.
Johnson scrive con una luce che taglia: semplice, nitida, capace di ferire e consolare nello stesso istante.
Un libro da leggere in un soffio, ma che resta dentro a lungo — come un treno che continua a passare nella memoria.
Super consigliata la visione del film tratto dal libro, disponibile su Netflix: atmosfere alla Terrence Malick, splendida fotografia, un Joel Edgerton nel ruolo del protagonista che tiene magnificamente in piedi un film fatto di silenzi, amore, dolore e rinascita.

“Grainier senti gli occhi di sua figlia posarsi su di lui nel buio, come quelli di una bestia presa in trappola. Era solo uno scherzo dei suoi pensieri, eppure gli mandò qualcosa di freddo giù per la schiena. Rabbrividì e si tirò su la trapunta fino al collo. Per tutta la vita Robert Grainier avrebbe ricordato quel preciso momento di quella precisa notte.”

a cura di Marco Palagi