“Cleopatra. L’ultima regina d’Egitto” di Christian Jacq: una lettura storica e suggestiva

di Venusia Marconi

Un tratto di biografia romanzata. Potremmo definirlo così il libro dell’egittologo più famoso del mondo, Christian Jacq, dal titolo Cleopatra. L’ultima regina d’Egitto. Un tratto perché l’opera vede all’inizio l’esilio della giovane regina e alla fine un Tolomeo Cesare fanciullo. Una biografia romanzata perché elementi storici e fantastici si intrecciano continuamente dando vita ad una trama interessante, suggestiva e coinvolgente.
A volte, genericamente parlando, è difficile capire dove termini la Storia e cominci il mito, ma è certo che Cleopatra ha da sempre alimentato una certa curiosità nei suoi confronti, divenendo il centro di numerosi studi storici – riguardanti ad esempio il suo ruolo nell’Antico Egitto in quanto regnante donna o le abitudini cosmetiche dell’epoca – ma anche di moltissime opere letterarie e cinematografiche. Nello specifico, quella di Jacq, è una donna estremamente bella, intelligente, forte nello spirito, carismatica e dedita ai misteri delle divinità egizie. Capace tanto di amare appassionatamente e in modo totalizzante un uomo come Giulio Cesare, al punto da fargli quasi dimenticare la sua Roma, quanto di tenere alto il morale di quell’esercito di fortuna che è riuscita a costituire durante l’esilio. La sua sensualità è esaltata da unguenti, gioielli e abiti pregiati, richiamando la ricchezza che si percepisce nei tratteggiamenti riguardanti Alessandria, opulenta e profumata.
Ma nel libro troviamo anche elementi più aspri, quali descrizioni di tattiche e manovre militari, del resto la guerra civile è tema cruciale nella storia della regina. L’autore, però, forse grazie anche a dettagli numerici che possono frenare il pathos, di norma riesce a evitare che la crudezza della morte appesantisca il clima della narrazione. Persino di fronte alla testa mozzata di Pompeo, il disgusto arriva e si dilegua, incalzato dagli eventi che si susseguono.
I capitoli sono brevi, il linguaggio basico, senza virtuosismi, e queste caratteristiche contribuiscono a rendere la lettura veloce e leggera.
Il libro, nel complesso, è piacevole. Se è vero che qualche volta si ha l’impressione che le divinità intervengano un po’ troppo nel corso degli eventi storici, quasi come dei ex machina interpellati con regolarità in un’atmosfera fortemente spirituale, è altrettanto vero che, oltre a fare un’ottima compagnia, queste pagine hanno il merito di spingere il lettore ad approfondire alcuni eventi dell’antico Egitto e alcuni tratti di Cleopatra, una figura che ancora oggi non smette di incantare.

“Porto un nome pagano” di Venusia Marconi: una silloge passionale e coraggiosa

a cura della redazione

In questa silloge poetica c’è la passione amorosa e sensuale, il coraggio, la forza, la durezza dei momenti difficili, la tristezza di quelli apparentemente insormontabili, la fragilità dell’animo umano che si sporge, tendendo il corpo quasi verso la solitudine appesa lì, in aria, che sussurra promesse.
Impossibile non ritrovare l’Autrice in questi versi, il suo aggrapparsi a volte al buio accarezzando la luce con parsimonia, con delicatezza, quasi a volerle dire “non scottarmi troppo, stavolta”.
Sono versi che sembrano adattarsi al lettore, alle ansie e preoccupazioni quotidiane, mi fanno venire in mente la filosofia che sta alla base dell’arte marziale di Bruce Lee. “Svuota la tua mente,” diceva. “Sii senza forma. Senza limiti, come l’acqua. Se metti dell’acqua in una tazza, l’acqua diviene tazza. Se la metti in una bottiglia, diventa la bottiglia. In una teiera, diventa la teiera. L’acqua può fluire o spezzare. Sii come l’acqua, amico mio.”
E questi versi di Venusia Marconi non si nascondono dietro rime o figure retoriche fittizie. Passano attraverso occhi bagnati, lividi come ombre sul soffitto, labbra dipinte di rosso che cercano di sopravvivere in una domenica qualunque. Viene quasi la voglia di fare l’amore con le poesie, che diventano carne nel crepuscolo di un giorno fatale.
E quindi, tornando a Bruce Lee, l’Arno di questa silloge, quel fiume che fluisce e trascina ogni cosa, che raccoglie lacrime irrequiete e riflessi di mura in apparenza invalicabili, ha preso la forma di un libro di trentotto liriche. Sta a noi decidere se vogliamo riaprirne gli argini, connettendoli con quelli della nostra anima.

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“Le Assaggiatrici” di Rosella Postorino: una storia poco conosciuta ma di grande impatto emotivo

a cura di Venusia Marconi

“Ma in fondo dare la vita è sempre condannare alla morte, diceva Gregor. Davanti al creato, Dio contempla lo sterminio.” Si legge nel libro. E la morte è proprio una delle protagoniste del romanzo di Rosella Postorino, la quale trae spunto da una storia vera letta su un giornale italiano nel 2014. Quattro anni dopo esce Le Assaggiatrici, il libro in cui la voce di Rosa Sauer ci narra un aspetto poco conosciuto della Germania nazista.
È il 1943 e dodici donne vengono reclutate per assaggiare, appunto, il cibo destinato a Hitler, onde scongiurarne la morte per avvelenamento. Ogni giorno, per tre volte, queste donne si siedono alla mensa del terrore, costrette a fare i conti con la fame e con la morte. Ogni giorno attendono che quel cibo, dopo averle saziate, le uccida davanti allo sguardo severo e beffardo delle SS. Ogni giorno sono dilaniate dal senso del sacrificio per il Führer e la paura.
Queste donne, che col trascorrere del tempo imparano a conoscersi e a trovarsi, hanno il loro bagaglio di storia personale che si intreccia con gli eventi della Storia in comune che stanno vivendo.
In particolare, assistiamo alla vicenda di Rosa, berlinese, come viene chiamata a sottolineare la sua diversità rispetto alle colleghe, trapiantata in Polonia a casa dei suoceri. Il suo racconto si snoda su due piani temporali. Il primo è quello del presente della voce narrante con Hitler fisicamente nel rifugio segreto ma la cui ombra compare nelle divise, nei bombardamenti e nel cibo; con le assaggiatrici che vivono drammi e segreti anche molto importanti; con il dolore causato da Gregor il quale, dopo un anno di matrimonio, ha scelto di partire per il fronte senza neanche lasciarle il conforto di un figlio in grembo. L’altro piano temporale riguarda il passato di Rosa dove, tra i dolci ricordi della famiglia, non mancano certo dolori e lutti. Quest’alternanza rende maggiormente comprensibili alcuni pensieri della giovane donna e, dal punto di vista strutturale, agevola la lettura, spezzandola con ritmi diversi.
La pecca del libro, vincitore di due premi letterari, è tutta in un finale che lascia perplessi e a tratti delusi. Sarebbe stato necessario un maggiore sviluppo del contesto storico? La risposta dipende da cosa cerchiamo nel libro man mano che ascoltiamo la voce emozionata, spaventata e dignitosa di Rosa Sauer.