La maschera del diavolo

di Gabriele Panigada

Quando una maschera può dirci chi siamo. Proprio così, e non per cavalcare l’onda turbolenta del Carnevale, né per seguire mode o teorie che fanno dell’essere umano mille o nessun personaggio, un animale da guerra pronto a indossare ogni viso e sorriso pur di sopravvivere al mondo e farsi beffe del prossimo. I più smaliziati potranno confermare la banalità di queste parole: persona vuol dire ’maschera’, una qualunque; così ci hanno insegnato a scuola e tali noi siamo, una folla di maschere colorate. Come potremmo negarlo?
Ma chi ha ormai preso confidenza con una ’ignota’ rivista, sa che non possiamo fermarci qui. Non noi che vogliamo essere persone pienamente consapevoli di se stesse. Persone, dall’etrusco phersuna, ovvero ’appartenente a Phersu’. Questa è bella! Siamo grandi, vaccinati e indipendenti, e adesso scopriamo di appartenere tutti a un certo Phersu… e chi sarà mai?

Phersu

Mmmh, brutta faccenda… si tratta di un demone, di una creatura infernale, per giunta nemmeno bella a vedersi. Phersu è una figura che frequenta con una certa assiduità le pareti dipinte delle tombe etrusche, scorta chi si appresta all’ultimo viaggio e di solito sembra indossare una maschera rossa, molto simile a quella di Pulcinella. Da qui l’equivoco: Phersu e dunque persona = ’maschera’. Siamo infatti sicuri che si tratti davvero di una maschera? La colorazione vermiglia del suo volto potrebbe ricordare piuttosto un’antichissima pratica funeraria, quella di dipingere di rosso i teschi degli antenati, chissà per che diavolo di credenze religiose.
Siamo quindi tutti dannati, fritti, fregati, buoni solo a riempire il calderone di Satana? Il linguista Giovanni Semerano ci insegna che in realtà le cose sono più profonde di quanto sembrino, sempre. Phersu potrebbe derivare da antiche parole mediorientali, come il babilonese persu = ’separazione’, dal verbo parasu = ’separare’, dal quale è derivato anche l’ebraico paras = ’dividersi’, ’allontanarsi’. Allora, persone non come maschere, ma come esseri destinati a Phersu, alla separazione, all’ultima obbligata partenza, a quel viaggio misterioso che nessuno può raccontare.
Credete che sia triste? Per niente; questa è una presa di coscienza, una dichiarazione d’orgoglio. Il demone etrusco è spesso ritratto con una mano tesa davanti al volto, come se volesse scacciare da sé le figure umane a lui destinate: l’uomo sa come allontanare la morte, l’uomo sa, comprende il mistero della vita e questo basta per vincere Phersu. E quel grande portone serrato, dipinto laggiù in fondo all’antro, non spaventa: intorno a lui danzano giovani musicisti e belle ragazze con brocche colme di vino.
Che dunque sia Carnevale, che sia la baldoria colorata di sempre, l’intreccio di maschere che confonde e nasconde: siamo ben altro di quei ritratti di cartapesta, anche se la differenza è invisibile agli occhi perché è solo all’interno, al cuore di se stessi. Lì sappiamo che il tempo ci appartiene, che è una nostra creatura e non c’è demone che tenga: possiamo stravolgere ogni ordine e fare persino di un buffone un re. Una durata illusoriamente finita può racchiudere imprevisti squarci d’infinito; a ognuno la scelta di come redimere il proprio inferno.

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