
Oscar Wilde, un uomo che in fatto di estetica la sapeva lunga, scriveva: Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero… Dunque, bando all’ipocrisia e alle false intenzioni. Di fronte a migliaia di persone e maschere riunite in un’unica grande festa, non possiamo che ottenere un concentrato dirompente di sincerità: il Carnevale.
Lo sanno i carristi di Viareggio con i loro mastodontici politici: a Carnevale la sincerità evade dall’ordinaria cortesia del quieto vivere; dove non arrivano i giornali e le chiacchiere da talk-show, quelle sole due settimane banchettano allegramente alla faccia di qualsiasi ordine precostituito. O almeno così era in origine, nei giorni in cui il re era sbeffeggiato dal popolo e i signori riverivano i servi, dato che semel in anno licet insanire: una volta all’anno è lecito impazzire.
Ma ogni follia è tale solo se contenuta da una ferrea normalità: la baldoria del Carnevale anticipa il rigore della Quaresima e come la Pasqua è una celebrazione mobile, ballerina come la luna. Quest’anno poi, si fa attendere come una bella donna consapevole di esserlo, talmente bella da non aver bisogno nemmeno di mascara, dato che la comune etimologia con maschera ci rivela l’arabo mascharà, ’scherno’, ’satira’: che siano tutti gli altri a indossarla! E così, per il martedì grasso dovremo aspettare l’8 marzo, data piuttosto avanzata, quasi raggiunta solo nel 2000, il 7 marzo, e per arrivare a una simile altezza cronologica dovremo andare ben oltre il 2020… fine del mondo permettendo.
Ma la vera fine del mondo è già racchiusa nel Carnevale, nel suo rincorrere il ciclo solare e celebrare il passaggio dal vecchio al nuovo, dal caos delle origini all’ordine della creazione. Quello che esprime è il nostro eterno bisogno di rinnovamento, di abbandono momentaneo di ogni regola per ricominciare daccapo, nuovi eppure sempre uguali. Rito orgiastico o sarabanda di costumi, nei secoli ha vestito panni sacri e profani, bistrattato o incentivato da questo o quel credo religioso, perpetuo fantasma dello spirito umano pronto a infestare ogni latitudine.
La Chiesa ne ha fatto un preludio necessario all’astinenza che purifica, verso la Resurrezione, perché in fin dei conti, pur se diretti al Paradiso, siamo fatti di carne e dei suoi crismi abbiamo bisogno: carnevale da carnem levare, ovvero ’togliere la carne’, si pensa proprio in riferimento al contrasto tra la baldoria godereccia del martedì grasso e il successivo digiuno della Quaresima.
Ma ai nostri giorni, quando gli eccessi possono facilmente essere raggiunti in qualsiasi momento dell’anno, ha ancora senso rincorrere quel limite di godimento imprescindibile, quella forte carica di liberazione e di pazzia, di ritualità profana e profanatrice, di sessualità primitiva, di condivisione e convivialità, di danze selvagge e di abbondanza alimentare concentrata in mezzo all’inverno? Secondo l’antropologo Julio Caro Baroja il Carnevale è ormai morto da un pezzo… dobbiamo allora rassegnarci all’insipido appiattimento di una società perennemente votata a una diluita baldoria seriale e priva di significato?
No di certo. Oltre a vivere la ricorrenza come da sempre sappiamo fare, c’è un altro modo per riscattarla: osservarla un po’ distaccati, come un ballerino stanco che scruta la folla danzante dal riparo di un angolo per rituffarvisi poco dopo, e assaporarne così tutte le sue implicazioni. E poi magari, più attenti e consapevoli, partecipare ai baccanali con la certezza, anche per i più timidi o i più morigerati, che in ogni luogo e in ogni tempo possiamo anche concedere qualcosa al nostro inconscio, perché, come dice Vasco, la vita è tutto un equilibrio sopra la follia e cadere fa parte della fatica di restare in piedi.
E allora venite con noi: andiamo in giro a curiosare tra alcune delle espressioni più insolite del Carnevale. Passando oltre le celeberrime parate di Viareggio e Venezia, come non citare la Battaglia delle arance di Ivrea.

Qui veri e propri personaggi incarnano una leggenda: non si tratta infatti di semplici maschere, ma simboli di valori libertari e interpreti di antiche vicende. Ecco allora arrivare il carro della mugnaia, l’eroina che si oppose alle pretese del tiranno di esercitare lo jus primae noctis sulle spose del paese. La coraggiosa giovane lo uccise e innescò una rivolta popolare che rivive ogni anno nella battaglia delle arance, combattuta tra gli aranceri a piedi, simbolo del popolo ribelle, e quelli sui carri, che rappresentano le guardie del tiranno. Chi voglia partecipare senza ricevere un frutto in pieno volto, dovrà indossare il berretto frigio, simbolo di libertà e fratellanza ereditato direttamente dai rivoluzionari francesi… ma nessuno garantisce la salvezza in mezzo a cotanto furore ortofrutticolo… ed è inutile ricordare che l’arancia è uno dei simboli per rappresentare l’organo sessuale femminile, e la pianta corrisponde all’eterno rifiorire e fruttificare della vita. Non lontano dalla cittadina piemontese, ecco un utilizzo analogo di agrumi in lotte carnevalesche e metaforiche: si tratta della Fête du Citron di Mentone, appena al di là del confine francese.
Per proseguire in scenari francofoni, ecco nella belga Ostenda Le Bal du rat mort. Pare che l’idea sia da attribuire a un gruppo di giovani recatisi nel 1896 a folleggiare nel cabaret parigino Le rat mort. Talmente entusiasti dell’esperienza, tornati a casa vollero aprire un locale simile, inventando così il canto e la marcia del ratto morto. Ogni anno, presso il casinò della città si rivive quell’atmosfera: cabaret, balli sfrenati, belle donne e un grottesco rimando alla morte; ancora una volta il Carnevale reinventa la propria voglia di riscatto vitale.
A Fiss, nel Tirolo, la metafora sessuale e benaugurale dà origine alla sfilata del Blochziehen, quando un grosso pino viene tagliato dagli scapoli del paese e trascinato per le vie e le piazze, scortato da orsi, streghe e diavoli, figure sospese tra tenebre e luce. Dopo aver venduto all’asta il pino, col ricavato si mangia, si brinda e si fa baldoria tutti insieme.
Infine, ecco i Mamuthones, le maschere – rigorosamente fabbricate con legno di pero selvatico – che animano il carnevale sardo di Mamoiada, nel cuore della Barbagia sarda. Figlie di un’antichissima tradizione, oscure e minacciose scuotono i loro mille campanacci irti sulla schiena come aculei di porcospino. Accanto a loro, gli Issohadores sfilano minacciosi lanciando frustate con le lunghe sohas verso gli spettatori: talvolta ne catturano uno e il malcapitato, per essere liberato, deve offrire dal bere al suo aguzzino. C’è chi dice che riecheggi il corteo dopo una battaglia contro i Saraceni: le maschere scure rappresenterebbero allora i prigionieri infedeli. Ma la simbologia atavica è molto più nascosta e sembra affondare in dimenticati riti legati all’agricoltura e alla soggiogazione degli animali, due momenti fondamentali alle origini della civiltà.

La prossima volta in cui indosserete una maschera in mezzo a un fiume di persone festanti, osservate per un attimo la sua superficie colorata: quella potrebbe essere la vostra seconda pelle, inconsapevolmente riemersa dal buio di un subconscio domato, una momentanea e bramata liberazione dai lacci che vi opprimono ogni giorno…
“Come faremo, Medusa, a dire tutto?… Il carnevale, il carnevale, come faremo a dire l’oscuro suo segreto?”
Mario Tobino