Le uniche cose che contano

Audrey con le palpebre ricoperte di brillantini indossa l’abito nero di Come rubare un milione di dollari e vivere felici, 1965

di Marco Palagi

Sono nata a Bruxelles, in Belgio, il 4 maggio 1929… e sono morta sei settimane dopo.
Se dovessi scrivere una biografia, la incomincerei così.

Contrassi una brutta forma di pertosse e il mio piccolo cuoricino si fermò, ma due colpetti sulla schiena da parte di mia madre, Ella, mi rianimarono.
Ho origini olandesi, ungheresi e francesi, insomma se fossi un cane sarei un bastardello.
A cinque anni fui mandata in collegio in Inghilterra, anche e soprattutto perché il rapporto tra i miei genitori non andava molto bene. Ero terrorizzata all’idea di stare lontano da casa.
Inaspettatamente, nel 1935 mio padre, Joseph, ci abbandonò senza dare ad alcuno di noi una spiegazione.
Quello fu l’evento più traumatico della mia vita. Il divorzio dei miei fu il primo grande colpo che ricevetti quando ero bambina… lo adoravo, e mi è mancato terribilmente dal primo istante in cui è sparito. Guardi il volto di tua madre, lo vedi ricoperto di lacrime e ciò ti lascia impietrita. Assistere alla sua agonia fu una delle esperienze più terribili della mia vita. Pianse per giorni, tanto che pensai che non avrebbe mai smesso.

Mio padre insistette che rimanessi a scuola in Inghilterra, dove lui viveva, così da potermi venire a trovare appena gli fosse stato possibile. Non lo fece mai. Se solo avessi potuto vederlo regolarmente avrei sentito che mi amava e avrei sentito di avere un padre. Ma andò così, ho sempre invidiato quelli che avevano un padre e rientravo a casa in lacrime, perché loro un papà ce l’avevano.
Fu allora che mi innamorai della danza. La adoravo. La adoravo, non c’è dubbio. Dall’età di sei anni fino ai venti ho desiderato una cosa sola: essere una ballerina.

Nel 1939, la Germania invase la Polonia e mia madre temendo che prima o poi Londra sarebbe diventata un bersaglio nazista, insistette con mio padre perché mi facesse rientrare subito in Olanda. Il mio paese natale, infatti, già nel corso della Prima Guerra Mondiale si era dichiarato neutrale.

La casa di Oosterbeek, Olanda, dove Audrey e sua madre vissero per un periodo durante la Seconda Guerra Mondiale

E così fu. Mio padre mi imbarcò in uno degli ultimi voli e da allora e per venticinque anni non lo rividi più.
Il primo giorno di scuola stavo seduta al mio banchetto in uno stato di completa frustrazione: mi sentivo emarginata, non parlavo la lingua, non conoscevo nessuno. Per diversi giorni tornai a casa piangendo. Ma sapevo di non dover cedere. Fui costretta a imparare la lingua in fretta. E lo feci.
La danza e l’affetto della mia famiglia mi furono di conforto, almeno fino al maggio del 1940…
Mi stavo esibendo come ballerina di fila con Margot Fonteryn. Per l’occasione mia madre aveva chiesto alla nostra sartina di realizzare un lungo abito in taffetà. Me lo ricordo benissimo. Non avevo mai avuto un vestito elegante in tutta la mia vita. Aveva un piccolo collarino, un fiocchetto… Ricordo che salii sul palcoscenico illuminato dai riflettori, con tutte quelle graziose ballerine nei loro costumi di scena. Ero emozionatissima. Non potevo immaginare che a venti chilometri di distanza verso le tre di quella stessa notte l’esercito di Hitler avrebbe invaso l’Olanda neutrale.

Un saggio di danza con la scuola ad Arnhem, 1944

I tedeschi cercarono di essere civili e di far breccia nei nostri cuori. I primissimi mesi non ci rendemmo conto di ciò che era realmente accaduto, ovvero che i Paesi Bassi si erano già arresi.
La mia vita scorreva apparentemente normale: scuola, lezioni di danza al Conservatorio di Arnhem.
La mia insegnante diceva che avevo grandi potenzialità. E io sognavo di calcare i palcoscenici di tutto il mondo… Intanto l’occupazione continuava. Se avessimo saputo che sarebbe durata per cinque anni, avremmo tutti preferito morire. Pensavamo che sarebbe finita la settimana successiva… dopo sei mesi… l’anno successivo… È così che andammo avanti, ignorando che nel frattempo Hitler stava ’catalogando’ la popolazione isolando gli ebrei. Appena la cosa fu evidente, protestammo, scioperammo e Hitler si infuriò tanto che sferrò una dura offensiva nei nostri confronti. Il vero volto del nazismo ci fu presto evidente.

Dall’età di sei anni fino ai venti ho desiderato una cosa sola: essere una ballerina.

Avevo undici anni quando dovetti partecipare alla distribuzione dei nostri piccoli giornali clandestini. Li nascosi nelle calze di lana, montai sulla bici e andai a distribuirli. Mio padre, avrei saputo molti anni dopo, era stato imprigionato in Inghilterra in quanto simpatizzante dei nazisti. Sapevamo delle sue simpatie per l’ideologia fascista – tendenza in voga tra gli aristocratici dell’epoca – e ciò gli costò tre anni di detenzione e due anni in un campo di prigionia.
La mia famiglia fu costretta a trasferirsi poiché ci fu confiscato tutto, casa, conti in banca, proprietà…
Era all’ordine del giorno assistere a rappresaglie per le strade di Arnhem: giovani messi al muro e fucilati, i soldati che bloccavano la strada, poi la riaprivano e ci consentivano di nuovo di circolare. Ho visto in quei giorni il gelido terrore umano. L’ho visto, l’ho sentito, l’ho toccato. I tedeschi avevano bisogno di migliaia di lavoratori, ma solo un terzo di quelli necessari si fecero avanti spontaneamente, così reclutarono forzatamente ragazzi presi in strada. Dei miei due fratelli, Alexander optò per la clandestinità, mentre Ian venne portato via. Mia madre e io non sapemmo mai se fosse vivo o morto.

Per sfuggire ai nazisti cambiammo ancora casa e ci trasferimmo dal nonno che divenne la figura paterna della mia vita. Lo adoravo… Lui e io facevamo vecchi cruciverba, seduti intorno a una piccola lampada senza calore. Continuavo a studiare e a esercitarmi nella danza. Talvolta, ci esibivamo a casa di qualcuno con le finestre chiuse, letteralmente sigillate. Avevo un’amica che suonava il piano e mia madre ricavava i costumi da vecchie tende e stoffe. Inventavo io le mie coreografie, incredibile ma vero. Nessuno applaudiva, solo un cappello veniva fatto girare per la stanza, in silenzio. Il denaro che raccoglievamo sosteneva i partigiani.
Erano tempi molto duri, mangiavamo ortiche e tutti tentavano di cucinare l’erba; soltanto io non riuscivo a mangiarla. Durante l’ultimo inverno di guerra, non avevamo cibo di alcun genere. Alla fine del conflitto ero fortemente anemica, oltre che asmatica e tutto il resto che la malnutrizione porta con sé. Ebbi un grave edema. C’erano la guerra, la carestia, l’ansia e il terrore.
Nel 1945 mancò poco che fossi catturata come mio fratello Ian, fui raccolta insieme a una dozzina di altre ragazze per lavorare nelle cucine militari, tuttavia riuscii a sgattaiolare via e cominciai a correre, poi rimasi chiusa in casa per tutto il mese successivo. Fu allora che la mia vita, senza che io lo sapessi, cambiò. Compii sedici anni il 4 maggio e la liberazione arrivò. Sentii l’odore delle sigarette inglesi, ci avvicinammo alla porta di ingresso… la casa era circondata di soldati, tutti con le armi puntate contro di noi. Sapevano della stazione radio tedesca che avevamo in casa, ci dissero di essere venuti a prendersela e si scusarono di averci disturbato. Io scoppiai a ridere e risposi: “Ma prego, continuate pure a disturbarci con comodo”.
Avevamo perso tutto, naturalmente. Le case, i beni, il denaro, ma non ci importava un bel niente. Eravamo riusciti a salvarci la vita, e questo contava.
Mia madre, in quei tempi terribili, mi insegnò che era sbagliato non pensare prima agli altri, era sbagliato non darsi una disciplina. Principi a cui ho sempre cercato di tenere fede.

Sin da piccola, come vi ho raccontato, ho conosciuto molto bene la sofferenza e la paura. Di nuovo in Inghilterra, ma questa volta con mia madre, per la prima volta, provavo la vera gioia di vivere.
A offuscare la mia serenità il dispiacere di dover abbandonare la danza a causa della mia altezza: ero un’Amazzone che sovrastava i ragazzi. Feci la modella, mi esibii a teatro in alcuni musical. Mi innamorai di un cabarettista ma il produttore teatrale inserì una clausola nel mio contratto di ’non-matrimonio’ tanto era preoccupato per gli affari… Gli spettatori erano quasi tutti maschi e temeva che il loro interesse sarebbe venuto meno se avessero saputo della mia relazione.
Nel 1952 finalmente arrivò la mia occasione nel cinema: Vacanze romane di William Wyler.

Audrey e Gregory Peck giocano a carte sul set di Vacanze Romane, la Hepburn in una scena del film, 1952

Da quel momento in poi la mia carriera fu tutta in ascesa. Chi lo avrebbe detto che da ballerina Amazzone in punta di piedi tra i nazisti sarei diventata un’attrice con cui tutti volevano lavorare.
Questa l’attrice. E la donna? Mi sono sempre considerata una donna tradizionale. Quando sposai Mel decisi che se mi fossi dedicata per, diciamo, tre mesi alla mia carriera, avrei potuto trascorrere altri tre mesi a fare la donna sposata e la moglie ideale.
Durante tutta la mia carriera l’equilibrio tra il mio lavoro e la mia vita personale fu sempre prioritario.

La stella di Audrey sul Walk of Fame a Hollywood

Purtroppo arrivò per me un aborto e poi un secondo. Dai primi tempi di cui abbia memoria, la cosa che ho voluto di più al mondo è avere dei bambini. I miei aborti sono stati per me più dolorosi di qualsiasi altra esperienza, compreso il divorzio dei miei genitori e la sparizione di mio padre. Finalmente nel luglio del 1970 arrivò Sean. Come tutte le mamme in un primo momento non riuscivo a credere che fosse davvero per me, e che potevo veramente tenerlo. Poter uscire e poi rientrare per scoprire che lui è ancora lì.
In ottobre, cominciai le riprese di Colazione da Tiffany che è la cosa migliore che abbia mai fatto, perché è stata la più difficile.
Pensavo che il matrimonio tra due brave persone che si amano dovesse durare fino alla morte di uno dei due. Non so spiegarvi quanto fossi delusa quando tra me e mio marito, dopo tredici anni, tutto finì. Per fortuna avevo ancora il lavoro e Sean.
Nel 1968 accettai l’invito di amici a raggiungerli sul loro yacht per una crociera nel Mediterraneo, crociera dove conobbi Andrea Dotti, uno psichiatra, più giovane di me di nove anni. Avete presente la sensazione che si prova quando ti cade un mattone sulla testa? Ecco, è così che i sentimenti per Andrea si sono fatti sentire per la prima volta. È successo così, all’improvviso. Diventai una casalinga romana, proprio quello che volevo essere. Nel 1970 arrivò per me una nuova gioia immensa, Luca, il mio secondo figlio. Da una parte lo stare lontano dai riflettori, dal cinema e dall’attenzione mediatica mi permetteva di dedicarmi a tempo pieno alla mia famiglia, volevo che mio marito e i miei figli tornando a casa trovassero un ambiente felice e armonioso. Ma era un dramma quando uscivo coi miei figli a Roma, i paparazzi mi assediavano, sbucavano da dietro gli alberi e Luca gridava talmente ne era spaventato.
Andrea era un estroverso e io un’introversa. Lui aveva bisogno della gente e delle feste, mentre io adoravo starmene per i fatti miei, all’aperto, a fare lunghe passeggiate con i miei figli e i miei cani. Un aborto ti strappa il cuore, ma il divorzio fa altrettanto.
Ma ancora una volta l’amore per i miei figli Sean e Luca mi aiutò a superare questo momento. Potrei sopravvivere senza il lavoro, ma non senza la famiglia. Ecco perché la mia vita privata ha sempre avuto la precedenza.
Mentre stavo affrontando il divorzio conobbi l’ultimo uomo della mia vita, Robert Wolders… rimasi incantata da lui quella sera, ma lui non era il massimo. Stava tentando di superare la morte di sua moglie Merle e quello era il periodo peggiore anche della mia vita, uno dei picchi più bassi. Piangevamo ciascuno per il proprio dolore. Innamorarsi fu solo questione di tempo.
Nell’autunno del 1980 seppi che mio padre versava in gravi condizioni, così andai a Dublino per vederlo un’ultima volta. Robert mi accompagnò e finii per raccogliere le sue confidenze: aveva rimorsi per non avermi dato di più quando ero bambina, per non avermi dimostrato il suo amore. Quattro anni più tardi anche mia madre mi lasciò, non senza aver prima approvato Robert, lo adorava, al contrario dei miei due ex mariti. Fu allora che Robert e io capimmo che c’era qualcosa di più di un’amicizia tra noi.
Nel 1987 mio cugino mi diede l’opportunità di parlare, come ospite d’onore, a un festival della musica a nome del Comitato portoghese per l’unicef. La sola cosa che dissi quella sera fu: “Quarantamila bambini muoiono ogni giorno per cause facilmente prevedibili”. L’8 marzo del 1988 fu una data che per me segnò, come la nascita dei miei figli, una tappa importantissima della mia vita, divenni ambasciatrice per l’Unicef.

Audrey ha sempre nutrito un grande amore per i bambini. Nel 1988 diventa ambasciatrice dell’Unicef

Facevo provini per quella parte da oltre quarantacinque anni e finalmente la ottenni. La più grande ricompensa è dare. Senza dare non c’è vita. Salvare un bambino è una benedizione. Salvarne milioni è un’opportunità offerta da Dio. Per me le uniche cose che contano sono quelle che hanno a che fare col cuore. Dopo il mio primo viaggio in Etiopia le scene cui assistetti mi lacerarono. Avevo il cuore a pezzi. Ero disperata. Non riuscivo a sopportare l’idea che due milioni di persone, molti dei quali bambini, fossero in imminente pericolo di morire di fame. Le parole di un sacerdote cattolico ancora risuonano nella mia mente: “Se non potete mandarmi cibo per i miei bambini, allora mandatemi le vanghe per scavare le loro tombe”.
Nel 1989 Steven Spielberg mi offrì quella che sarebbe stata la mia ultima parte: l’angelo Hap nel film Always. Sentivo fortemente che è da lì che comincia tutto, dalla bontà. Che mondo diverso potrebbe essere questo, se ciascuno ispirasse a ciò la propria esistenza.

Audrey ha sempre sognato di avere dei figli, ne ha avuti due e poi ha adottato i bambini del mondo.
Il 20 gennaio 1993 se ne è andata in punta di piedi con la stessa grazia che l’ha accompagnata nella vita.

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