
In arte vi sono convenzioni che dovrebbero essere rispettate. La più importante esige che, seppure in tempi diversi, il pittore e l’osservatore percepiscano il medesimo oggetto: il primo attraverso il proprio apparato sensoriale o anche l’immaginazione, il secondo per mezzo di una rappresentazione più o meno fedele al dato reale o a quello psichico. Nel corso dei secoli diversi artisti hanno sperimentato strategie, a volte stravaganti, per mettere in discussione questo essenziale patto comunicativo. Un pittore, tra i più grandi, lo fece letteralmente a pezzi.
Quando dipinse Las Meninas, Diego Rodriguéz de Silva y Velázquez aveva compiuto cinquantasette anni ed era pittore di corte, con qualche interruzione per i viaggi in Italia, da circa trentatre anni.
I ritratti di corte, compreso quelli di personaggi marginali come buffoni e nani, lo avevano reso famoso e apprezzato. Il suo realismo che nulla concedeva al pittoresco o al caricaturale, metteva a fuoco con rigore e sensibilità le qualità di ogni soggetto ritratto.
Nel 1656 l’artista era ormai pronto a trasformare in materia pittorica le sue meditazioni sull’arte, il rapporto tra realtà e illusione così diffusamente indagato dall’arte seicentesca. L’occasione fu una qualsiasi giornata di vita a corte. L’Infanta è attorniata dalle meninas (damigelle che prodigano le proprie cure alle bambine di sangue reale), due nani stazionano oziosamente lì dappresso, mentre in secondo piano e in ombra, una dama e un cavaliere di scorta sembrano confabulare. Lontano su una rampa di scale vigila il maresciallo di palazzo.
Questo è ciò che si percepisce con un occhiata superficiale.
Ben presto ci accorgiamo che ogni singolo elemento della rappresentazione, pure in sé giustificato dal contesto, sembra non accordarsi perfettamente con gli altri. Perché è proprio questo il punto. Il nostro occhio non può ricevere in un sol colpo una congerie di informazioni ed elaborarle istantaneamente. Si cerca un centro dal quale partire e poi lo sguardo si muove, naviga, da un elemento significativo all’altro con brevi stazionamenti, come una navicella che si muova attraverso gli isolotti di un arcipelago.
Tutti gli artisti sono consapevoli, almeno istintivamente, di questa modalità di fruizione delle immagini.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta del XX secolo il fenomeno è stato attentamente studiato dagli psicologi della percezione. In particolare lo studioso russo Alfred Lukjanovic Yarbus, aiutandosi con dispositivi di registrazione del movimento oculare, è pervenuto alle seguenti conclusioni: durante l’osservazione di un ritratto gli occhi alternano movimenti rapidi (da 2/100 a 10/100 di secondo) e involontari detti saccadi e soste di 15/100 di secondo dette fissazioni. Durante gli spostamenti c’è il silenzio percettivo. Solo alla fine dell’esplorazione la mente può elaborare come insieme le informazioni.
Qual è il centro focale del dipinto? Certamente l’Infanta Margherita.
A partire da questa l’occhio si spinge tra le figure a destra e a sinistra, in avanti e indietro cercando di individuare almeno i confini dell’ambiente e la posizione di ciascun personaggio rispetto all’altro. La disposizione delle persone si presenta come un ostacolo, non essendo ordinata secondo una direttrice o uno schema. Lo spazio è difficile da delimitare perché in parte è in penombra e in parte è coperto dalla tela del pittore. E quest’ultima è già un’anomalia notevole. Che i pittori abbiano in passato firmato le proprie opere auto rappresentandosi in gruppi più o meno numerosi è un fatto. Che il pittore si presenti nell’atto stesso di dipingere è disorientante.
Cosa c’è su quella tela? Soprattutto chi sta guardando l’artista? Se sta riprendendo l’Infanta e la sua corte è ammissibile che le figure principali gli volgano le spalle? Forse sta eseguendo il ritratto dei Filippo IV e consorte, in piedi fuori campo, proprio dove si trova idealmente l’osservatore. Ma sì è così. Eccoli i reali riflessi nello specchio sulla parete di fondo. Se si osserva con attenzione, tuttavia, si noterà che il corpo della menina a sinistra, Dona Maria Agustina Sarmento, copre in parte quello dell’artista. Ergo Dona Maria è più vicina alla tela di Velázquez. Impossibile che l’artista dallo sguardo assorto, con tanto di tavolozza e pennelli, si disponga a una così notevole distanza dal cavalletto. Senza contare l’impedimento sconveniente costituito dalla presenza di una damigella d’onore nel suo avvicinarsi e allontanarsi dal cavalletto. E dunque? È possibile che vi sia fuori campo uno specchio di opportune dimensioni (sempre nello spazio dove si suppone sia l’osservatore) che riflette la scena che a noi è dato di vedere e che l’artista si allontani di tanto in tanto per meglio valutare, da un punto di vista meno decentrato, l’effetto d’insieme. I reali farebbero capolino da una porta ornata da una tenda rossa di fronte all’Infanta: lo specchio sulla parete di fondo e gli sguardi dell’Infanta, di Dona Isabel de Velasco e della nana Maria de Bàrbola, documenterebbero la loro presenza.

Tutto risolto? Forse. Qualcuno sostiene che sulla parete di fondo non vi sarebbe uno specchio, ma un quadro. Una bella complicazione. A ben vedere, tuttavia, ci si accorge che se così fosse sarebbe l’unico, se confrontato a quelli che lo circondano, a essere luminosissimo, anzi con un angolo in basso a destra di luminosità maggiorata, un riflesso si direbbe. E poi come non considerare il perimetro tra cornice e quadro, luminoso come gli spigoli smussati di un cristallo? Lo sguardo continua a navigare senza un approdo definitivo. Forse su quella tela c’è tutt’altro: un paesaggio o una natura morta. Ma non è questo il punto: quel gruppo di persone sta guardando verso il futuro ossia verso di noi e ci invita a condividere, attraverso uno spazio complesso, policentrico, concettualmente labirintico, il perfetto equilibrio tra realtà e illusione, tra ciò che potrebbe essere e tra ciò che forse fu.
© www.frammentiarte.it © Wikipedia.org © www.museodelprado.es