“Quello di cui non vogliamo parlare” di Gian-Luca Baldi: ricordi, emozioni e identità

a cura di Maria Landolfo

Il romanzo di Gian-Luca Baldi oscilla tra i fatti realmente accaduti, rielaborati e “scremati” dall’autore, e l’opera di fantasia. Parte da un fatto accaduto, doloroso, la morte dell’amato padre regista e scrittore, il fattore scatenante di un’introspezione profonda. Il racconto si pone come mezzo di conoscenza interiore e chiarificatrice e sembra avere come meta la piena espressione di quelle emozioni talvolta represse lungo l’arco di una vita.
Leggendo questo romanzo si percepisce lo sforzo consapevole dell’autore di porsi alla giusta distanza per poter focalizzare e descrivere con le parole una realtà mentale sfuggente e misteriosa, a lungo rimossa.
Descrive con metafore “liquide” i misteriosi processi interiori, come fiumi, laghi sotterranei, neve e fango, che scorrono nella nostra mente, dove si annidano le nostre emozioni e i ricordi; il tutto, mai definitivamente rimosso, è solo temporaneamente nascosto e riemerge da queste profondità, all’improvviso. La morte di un genitore è uno di questi momenti.
Si dice che quando si muore la vita ci passa davanti come un film, e questo sembra avvenire anche in chi resta. Alla fine ciò che rimane, dopo una vita, non sono le tante conoscenze razionali, i saperi, i successi e le apparenze, ma le emozioni profonde che riaffiorano in forma di visioni fantastiche e simboliche.  
Nel testo si rincorrono i ricordi legati al rapporto col padre, le frequentazioni nel mondo del cinema e della cultura (Moravia, Pasolini, Morin…) e gli interrogativi esistenziali sulla morte, il senso di appartenenza e d’identità legato ai luoghi in cui siamo vissuti, l’attaccamento tenace alla vita, l’esaltazione della bellezza nascosta delle cose, la forza e la potenza dell’immaginazione, la musica, ma il tema principale sembra essere soprattutto la difficoltà nella gestione delle emozioni, apparentemente rimosse per sopravvivere. Per “andare avanti”.
Il vissuto si cristallizza dentro di noi sotto forma di immagini, visioni e simboli, liberatori. Lasciarsi andare e vivere a pieno queste emozioni attraverso l’arte, in particolare la musica unita alla narrazione fantastica è per l’autore, scrittore e musicista, un modo per placare la sofferenza e comprenderne le cause più profonde.
Credo che i punti di forza di questo romanzo siano proprio i momenti in cui l’autore indulge nelle sue visioni fantastiche e oniriche e, in particolare, quando utilizza termini e metafore musicali.
La vita del figlio di un padre, noto negli ambienti cinematografici e culturali, sembra messa in ombra dalla presenza – assenza del padre, ma il flusso dei pensieri dell’autore lo conduce a un’intima verità inaspettata e diremmo catartica. Un genitore che non mette in ombra un figlio, ma lo illumina con i suoi sogni, con i suoi progetti e le sue proiezioni. La sua morte è un momento di crescita e di sofferenza enorme, ci toglie di colpo quella luce vitale, come un riflettore sotto il quale siamo vissuti fino a quel momento.

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“L’assassino di mio fratello” di Gerardo Ferrara: un romanzo dai forti messaggi umanistici (anche videorecensione)

a cura di leggereacolori.com

Esordio in narrativa davvero affascinante, perché colpisce l’ambientazione e la descrizione di personaggi che ci trasportano tra le pagine di questa storia intensa che si ispira alle parabole evangeliche. Ci troviamo proprio in Galilea all’inizio dell’era cristiana, di fatti i personaggi hanno tutti nomi ebraici che ci ricordano proprio alcuni dei protagonisti dei testi biblici, come David, che ricorda il nome del Re Davide o Avishai altro personaggio biblico utilizzato per il nome del padre. I protagonisti sono proprio due fratelli Shimon il maggiore e David il minore, una mattina il giovane Shimon si reca presso Deborah, la loro nutrice, per chiedere con grande agitazione dove si trova il padre e il fratello David, sembra che il ragazzo abbia intenzione di informare il capo famiglia che suo fratello minore ha intenzione di partire a Damasco con alcuni suoi amici, perché è stufo di vivere con loro e vuole girare il mondo.

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